La scuola di Francoforte

 


Marcuse

Herbert Marcuse, esponente della Scuola di Francoforte, analizza in modo critico la società industriale moderna, evidenziando come essa produca una repressione dell’individuo attraverso meccanismi di controllo sociale, culturale e sessuale. A differenza di Freud, secondo cui un certo grado di repressione è inevitabile, Marcuse parla di repressione addizionale: un eccesso di repressione imposto dal sistema capitalistico, che trasforma l’essere umano in un “essere per la produzione”, dominato dal principio di prestazione. Ciò implica che ogni energia psichica debba essere canalizzata nel lavoro e nella produttività, a scapito del piacere e della libera espressione.


In quest’ottica, la sessualità viene ridotta a mera funzione procreativa o consumo materiale, perdendo ogni valore creativo ed emancipativo. Anche le forme di apparente liberalizzazione, come l’erotismo pubblicitario o la sessualità spettacolarizzata, sono in realtà strumenti del sistema per mantenere l’ordine e illudere gli individui con una falsa libertà.


Nel suo libro L’uomo a una dimensione (1964), Marcuse denuncia la perdita della capacità critica e rivoluzionaria dell’uomo moderno, integrato e assuefatto al sistema. Tuttavia, egli individua nuove possibilità di liberazione in soggetti marginali: emarginati, esclusi, immigrati, giovani ribelli. Sono questi i potenziali protagonisti del “Grande rifiuto”, l’atto con cui l’uomo può dire no alla logica del sistema e rifiutare la falsa razionalità dominante.


Marcuse indica tre vie di liberazione dalla repressione:

1. L’arte, che esprime un desiderio umano di libertà e si configura come una forma di creatività non alienata, capace di immaginare mondi diversi.

2. L’eros, ovvero una forza libidica non repressa che si manifesta nella sensualità, nell’amore, nel gioco, e che si oppone alla logica produttiva.

3. L’utopia, intesa come tensione necessaria verso un mondo migliore e più giusto. Non è un sogno irrealizzabile, ma una forza concreta che stimola la trasformazione sociale.


La figura simbolica di questa speranza è Prometeo, il titano che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, rappresentando la scienza e la tecnica, ma anche la fatica, il dominio e la razionalità repressiva. Per Marcuse, tuttavia, questa figura può essere riscattata in chiave emancipativa, se posta al servizio della liberazione e non dell’oppressione.




Benjamin

Walter Benjamin, vicino alla Scuola di Francoforte ma mai formalmente parte di essa, sviluppa una critica radicale della società capitalistica e totalitaria del suo tempo. Filosofo e saggista di origine ebraica, perseguitato dai nazisti, individua nella civiltà moderna una forza repressiva che soffoca l’autonomia e la libertà dell’individuo. Condivide con Adorno e Marcuse il rifiuto della sistematicità filosofica e delle dottrine consolatorie, comprese alcune correnti marxiste moderate, e propone una visione tragica e messianica dell’esistenza, segnata dalla lotta tra la possibilità di liberazione e l’oppressione totalitaria.


Per Benjamin, la speranza non sta in un progresso continuo, ma nella possibilità di una rottura nella storia, un momento rivoluzionario imprevedibile e improvviso – simile al messianismo ebraico – che possa spezzare il corso ordinario del tempo e aprire la strada a un riscatto. Questo evento salvifico non ha però garanzie e si presenta come una possibilità estrema, legata a un passato di rovine e ingiustizie.


Uno degli aspetti centrali della riflessione di Benjamin riguarda l’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, analizzata nell’omonimo saggio del 1936. Con l’avvento delle tecnologie moderne (fotografia, cinema, registrazioni), l’opera d’arte perde la sua “aura”, cioè l’unicità, l’irripetibilità e l’alone sacro che la circondavano. Ma Benjamin non considera questo processo come una perdita assoluta: al contrario, la riproduzione tecnica rende l’arte accessibile a tutti, elimina la sua funzione elitista e borghese, e la trasforma in un mezzo di partecipazione politica e contestazione dell’ordine esistente.


Secondo Benjamin, l’opera d’arte riprodotta non è più solo un oggetto estetico, ma diventa un veicolo di consapevolezza collettiva, perché tutti possono fruirne e persino produrla. Il pubblico diventa spettatore e autore. L’arte si trasforma in uno strumento rivoluzionario, capace di sovvertire le tradizioni e aprire nuovi orizzonti di senso. In questo senso, la tecnologia non è solo alienazione, ma anche opportunità emancipativa, a patto che sia usata per fini liberatori.


Benjamin sottolinea quindi il ruolo politico dell’arte e propone una visione che unisce la critica marxista con l’utopia religiosa del messianismo ebraico. La sua riflessione si conclude con una denuncia della mancanza di senso del presente e con la proposta di una rottura radicale dell’ordine esistente, per restituire dignità e giustizia all’uomo.

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