Heidegger
Heidegger ritiene che la filosofia, fin dall’antichità, abbia dimenticato questa domanda, limitandosi a definire l’essere come una “cosa”. Al contrario, egli propone di indagare l’essere in quanto tale, partendo non da un ente qualsiasi, ma da quello che può porsi la domanda sull’essere: l’uomo, che egli chiama Dasein (letteralmente “esserci”).
Il Dasein è un ente particolare: è gettato nel mondo, si trova in una situazione determinata, e la sua esistenza è apertura al senso, possibilità di essere, responsabilità. Questo significa che l’uomo è sempre coinvolto nella sua esistenza, non può osservarla da fuori come un oggetto qualsiasi. È un essere-nel-mondo, cioè vive in una relazione costante con le cose e con gli altri, in una situazione concreta che lo definisce.
Heidegger si distacca dalla fenomenologia di Husserl per il suo approccio teorico e per l’idea che la coscienza sia sempre rivolta a un oggetto. Per Heidegger, infatti, la coscienza non è un punto di osservazione neutro, ma una condizione esistenziale vissuta. L’essere non si può ridurre a oggetto: ogni esperienza del mondo è già strutturata da un significato vissuto, che non può essere separato dal soggetto.
La riflessione sull’essere non mira quindi a trovare una definizione astratta, ma a chiarire il senso dell’essere attraverso l’analisi dell’esistenza umana concreta. L’essere si manifesta nella cura, cioè nel modo in cui l’uomo si preoccupa delle cose, dei progetti, degli altri. Il mondo, per Heidegger, non è semplicemente un insieme di oggetti, ma uno spazio di significato sempre aperto, legato all’esperienza del soggetto.
Negli anni ’30 Heidegger si avvicina brevemente al nazionalsocialismo, ma in seguito si ritira dalla politica e si dedica alla riflessione filosofica, prendendo le distanze anche dai temi più marcatamente esistenzialisti. Nei suoi scritti successivi approfondisce il linguaggio, la tecnica e il destino dell’Occidente, ma la questione dell’essere resta sempre centrale.
Per Heidegger, l’uomo non è un soggetto neutro che osserva il mondo, ma un essere-nel-mondo, un “esserci” (Dasein) che si trova gettato in una situazione concreta e storica. Questo essere-nel-mondo implica un coinvolgimento attivo e pratico con le cose, che non appaiono come oggetti isolati ma come strumenti utilizzabili inseriti in un sistema di relazioni. Ogni cosa rimanda ad altre e si comprende in base alla rete di significati in cui è collocata.
Heidegger definisce la comprensione come il modo in cui l’essere umano attribuisce significato alle cose. Essa non è un atto teorico, ma un processo interpretativo continuo, legato alle pre-comprensioni dell’individuo. L’orizzonte di senso in cui viviamo è dato da una totalità strumentale: le cose sono “utilizzabili”, collegate a progetti e obiettivi. Da qui, la comprensione si struttura in un circolo ermeneutico, in cui ogni interpretazione parziale è guidata da una visione d’insieme, che a sua volta può essere modificata.
Al centro della vita del Dasein c’è la cura (Sorge), cioè il fatto che l’uomo si prende carico del suo essere e del mondo che lo circonda. La cura implica una progettualità: l’uomo vive orientato al futuro, ai suoi scopi e possibilità. Tuttavia, spesso questa progettualità è vissuta in modo inautentico, cioè nella banalità quotidiana, in un’adesione passiva alle convenzioni sociali, ai ruoli imposti, al “si dice”, “si fa”. Questo stato viene definito deiezione, una caduta nell’impersonalità e nell’alienazione.
L’esistenza autentica è possibile solo attraverso un momento di crisi, segnato dall’angoscia. Essa non è paura di qualcosa di concreto, ma la presa di coscienza del nulla e della finitezza dell’essere. L’angoscia rivela all’uomo che il mondo e le sue cose non hanno un fondamento assoluto, e che egli stesso è un progetto gettato, cioè un essere finito che deve decidere come vivere.
Questa consapevolezza porta alla decisione anticipatrice della morte, che non è un desiderio di morte, ma il riconoscimento che essa è la possibilità più propria e inevitabile dell’uomo. Vivere in funzione di questa possibilità significa vivere autenticamente, scegliere sé stessi, assumere responsabilmente i limiti della propria esistenza e decidere le proprie possibilità in modo consapevole.
Infine, Heidegger collega tutto questo alla temporalità: l’essere dell’uomo è strettamente legato al tempo. L’uomo vive proiettato verso il futuro (cura), ma è condizionato anche dal passato (fatti già accaduti, esperienza) e vive nel presente. La struttura dell’esistenza umana è quindi temporale, e solo attraverso questa dimensione si possono comprendere l’essere e le sue possibilità.
La questione ontologica
Nella seconda fase della sua riflessione, Heidegger analizza la tradizione filosofica occidentale individuando in essa un grande errore: l’oblio dell’essere. Fin dall’antichità, la filosofia ha cercato il significato dell’essere partendo dagli enti (le cose particolari), finendo per ridurre l’essere stesso a un “ente supremo”. Così facendo, la metafisica ha dimenticato il senso originario dell’essere e ha costruito un sistema oggettivante e strumentale che ha dominato il pensiero occidentale fino all’epoca moderna.
Heidegger cerca di superare questa visione inaugurando una comprensione non metafisica dell’essere. L’essere non è un oggetto, né un concetto, ma qualcosa che si manifesta in modi diversi, spesso attraverso il linguaggio, l’arte, la poesia. L’essere si mostra come uno sfondo misterioso e inesauribile, da cui tutto proviene e che non può essere pienamente definito o concettualizzato.
Fondamentale è il ruolo della poesia e dell’arte, che per Heidegger rappresentano il luogo dove l’essere accade, dove si apre un nuovo orizzonte di senso. L’opera d’arte non si esaurisce nel suo uso, ma apre a nuove possibilità interpretative. In particolare, nella poesia si coglie il linguaggio come forza originaria e creativa, in grado di istituire un mondo, molto più della lingua intesa come semplice comunicazione.
Il linguaggio è quindi “la casa dell’essere”: è attraverso di esso che l’essere si manifesta e si dà all’uomo. Non si tratta solo di usare parole, ma di ascoltare il linguaggio, cioè mettersi in relazione con il modo in cui le cose assumono significato nella nostra esperienza. L’essere “parla” nel linguaggio, ma non può mai essere detto una volta per tutte.
In questo contesto Heidegger critica anche la tecnica moderna, che rappresenta il culmine del pensiero metafisico. Essa non è solo un insieme di strumenti, ma una visione del mondo in cui tutto è ridotto a risorsa disponibile, calcolabile e manipolabile. Questo porta a una nullificazione del senso dell’essere, dove l’uomo stesso rischia di essere dominato da ciò che ha creato, perdendo il contatto con la dimensione autentica dell’esistenza.
Secondo Heidegger, l’unica via d’uscita dal nichilismo moderno è ritrovare un rapporto più originario con l’essere, aprendosi al suo mistero, alla sua alterità. Questo richiede un pensiero poetante, capace di custodire e rispettare l’essere senza volerlo dominare o definire. In quest’ottica, l’uomo non è artefice del senso, ma partecipe di un processo di rivelazione che lo coinvolge.
Infine, con la sua nozione di “differenza ontologica”, Heidegger distingue nettamente tra l’essere e gli enti: il primo non va confuso con le cose particolari, ma è ciò che rende possibile il loro apparire. La filosofia deve perciò spostare l’accento dall’ente all’essere, superando il linguaggio della metafisica e accogliendo l’essere nella sua trascendenza e alterità.

Commenti
Posta un commento